Annali
ANNALE XII – Genere, generazione e consumi

L'ITALIA DEGLI ANNI SESSANTA

a cura di Paolo Capuzzo
Carocci, Roma 2003
pp. 255, € 20,50 | 978884302809X

Indice

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Indice
Introduzione di Paolo Capuzzo, Federico Romero, Elisabetta Vezzosi
PARTE PRIMA. IL CONSUMO: STRUTTURE E LINGUAGGI DEI NUOVI IMMAGINARI
Dal consumatore al produttore. Percorsi di ricerca su consumi, attori sociali e identità individuali e collettive di Ferdinando Fasce
Consumi, media e identità nel lungo dopoguerra. Spunti per una prospettiva d’analisi di Adam Arvidsson
People of plenty: consumi e consumismo come fattori di identità nella società italiana di Emanuela Scalpellini
La politicizzazione del consumo. La cultura di protesta e l’emergere delle associazioni dei consumatori in Italia e in Europa di Roberta Sassatelli
PARTE SECONDA. CONSUMI E TRASFORMAZIONI DELLE IDENTITÀ FEMMINILI E MASCHILI
Le immigrate italiane negli Stati Uniti: tra American way of life e usi e consumi dell’Italia di Giulietta Stefani
Mascolinità, mutamento, merce. Crisi dell’identità maschile nell’Italia del boom economico e trasformazione del modello femminile di Sandro Bellassai
What’s New’ Genere e modernità nella cultura aziendale di Jane Slaughter
La parità si acquista ai grandi magazzini’ Boom economico e trasformazione del modello femminile di Maria Chiara Liguori
PARTE TERZA. IMMAGINE E PERCORSI DI UNA GENERAZIONE
Tra storie e pratiche: soggettività giovanile, consumo e cinema in Italia durante gli anni Cinquanta di Enrica Capussotti
Giovani anni Sessanta: sulla necessità di costituirsi come generazione di Marica Tolomelli
Gli spazi della nuova generazione di Paolo Capuzzo
Indice dei nomi


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In breve
Nel decennio che la vede entrare nel novero dei paesi economicamente più avanzati dell’Occidente, l’Italia è attraversata da rapide trasformazioni che modificano profondamente i profili sociali del suo recente passato contadino. La crescita dei consumi e il suo impatto sui comportamenti giovanili, sui modelli e i ruoli di genere, sulla stratificazione sociale modificano profondamente i rapporti di potere all’interno della società. Nuove forme di commercializzazione, pubblicità, marketing si accompagnano all’espansione del sistema dei media e alla diffusione di nuovi mezzi di trasporto che rompono l’isolamento della provincia e contribuiscono all’integrazione del paese. Se gli anni Sessanta sembrano perciò rappresentare un momento di accelerazione nel difficile processo di nazionalizzazione dell’Italia, nondimeno presentano un paesaggio sociale differenziato, percorso da tensioni e conflitti che aprono inedite opportunità per l’affermazione di nuovi soggetti sociali. I saggi raccolti in questo volume analizzano alcuni aspetti centrali di questa trasformazione attraverso le nuove angolature storiografiche e metodologiche dei gender studies e dello studio delle generazioni.


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Introduzione

di Paolo Capuzzo, Federico Romero, Elisabetta Vezzosi

Questo volume – come il convegno da cui esso è maturato, organizzato a Roma dalla Fondazione Istituto Gramsci nell’ottobre del 2002 – nasce dalla volontà di affrontare l’analisi storica delle grandi trasformazioni sociali e culturali che scaturirono dal lungo boom a cavallo degli anni Sessanta e che in larga misura ne definirono sia il carattere che la successiva memoria pubblica.

Su questi temi esiste una storiografia ancora iniziale e sperimentale, eppure già capace di buoni risultati, che ci pare utile, se non necessario, far emergere e rendere visibile perché di essa abbiamo bisogno tutti quanti, non solo gli specialisti. E infatti fortemente avvertita la povertà e la staticità – fattasi negli ultimi anni davvero stantia – di un dibattito storiografico che, invece di prendere di petto i formidabili mutamenti della storia dell’Italia repubblicana, continua stancamente a ripercorrerne le controversie politiche e a rappresentare circolarmente il paese solo attraverso le sue culture politiche e le loro tensioni. Né noi né, tanto meno, la Fondazione Istituto Gramsci abbiamo alcuna remora teorica o metodologica nei confronti della storia politica, che anzi ci pare essenziale e che pratichiamo abbondantemente, chi per vocazione e chi per compito istituzionale. Tuttavia è divenuto evidente che la storia politica (che negli ultimi anni è tornata, per una serie di motivi nobili e meno nobili, a dominare la scena storiografica italiana) non può alla fin fine che ripiegarsi su se stessa, con forti rischi di ripetitività e sterilità, se non riesce a riferirsi alle profonde trasformazioni delle identità, delle aspettative, dei ruoli e delle percezioni che in quegli anni mutarono il modo di sentirsi cittadini di milioni di italiani e italiane. È per questo che abbiamo deliberatamente deciso di tralasciare – in questo volume come nel convegno – quell’aspetto degli anni Sessanta che non solo è (sintomaticamente) il più studiato, ma la cui riproposizione per forza di cose avrebbe convogliato il centro dell’attenzione sul rapporto tra società e politica, invece di focalizzarlo, come in questo momento ci sembra prioritario, sull’analisi storica delle dinamiche sociali e culturali. li tema della mobilitazione collettiva in chiave politica e del rapporto fra tale mobilitazione e il sistema politico resta di enorme interesse e nella discussione che qui presentiamo è spesso rientrato dalla finestra, ponendo interessanti interrogativi. Ma non abbiamo voluto spalancargli la porta principale perché ci è parso di gran lunga più urgente portare alla luce un altro tipo di ricerche, finora assai neglette nel panorama riconosciuto della storiografia italiana, eppure così vicine e affini alle più vibranti tendenze delle storiografie più robuste, in Gran Bretagna, Germania o Stati Uniti, con le quali non a caso tutti gli studiosi che hanno contribuito a questo volume hanno stretti rapporti di collaborazione e interazione.
Stiamo parlando delle ricerche che si focalizzano direttamente sugli agenti sociali, sui portatori e sui protagonisti delle trasformazioni collettive che hanno mutato il volto del nostro paese. Vale a di re quelle donne, quei giovani e quei consumatori che possono a tratti essere stati parte di mobilitazioni collettive a carattere politico e ideologico, ma che in primo luogo, con più continuità e ben maggiore rilevanza di lungo periodo, hanno elaborato, adottato o adattato i nuovi linguaggi del consumo, della cultura di massa, dell’auto-identificazione generazionale, della modernità declinata in tante e diverse versioni. Queste ricerche mostrano non solo quanto sia stata abusata dalla storiografia la categoria di “americanizzazione” – spesso decostruita per far posto al concetto di ibridazione di modelli diversi –, ma quanto sia necessario enfatizzare modernità alternative e collocare beni consumati e immagini negli specifici contesti nazionali, facendo interagire gli studi sulle nuove forme di consumo con quelli sulle culture nazionali, le istituzioni e le politiche dello Stato. La scelta delle tre parole chiave che danno il titolo al convegno e al volume – genere, generazione, consumi – mirava precisamente a questo: mettere in rilievo, ripercorrere ed esplorare le molteplici intersezioni tra gli assi principali lungo i quali si snodò la moltiplicazione e la trasformazione delle identità sociali che ebbe luogo in quegli anni. Identità che poi, nei decenni successivi, si sono ulteriormente sbrogliate e complicate secondo processi ben più diluiti e duraturi di quelli degli anni che qui vengono esaminati.
La struttura del convegno metteva a confronto ricercatori relativamente giovani, e sicuramente innovatori, con alcuni tra i più affermati e autorevoli storici dell’Italia repubblicana, nell’intento sia di sottoporre i nuovi studi a un vaglio rigoroso sia di procedere – per quanto possibile – a un primo dialogo fra tematizzazioni e approcci diversi. In particolare, intendevamo con ciò tentare già di muovere dall’analisi dei nodi di genere, generazione e consumi all’individuazione dei legami positivi che uniscono tali nuove strutture e forme identitarie con i più ampi concetti di cittadinanza, integrazione democratica, identità nazionale. Non con l’ambizione – per ora sicuramente prematura – di delineare nuove sintesi storiche, bensì nell’intento di aiutare il nostro sguardo retrospettivo a cambiare angolo visuale, a voltare pagina.
Ci sembra, infatti, che la nostra cultura storica, con l’eccezione di pochi e singolari autori, in genere guardi ancora ai mutamenti degli anni Sessanta solo come a dei cambiamenti per differenza rispetto al passato – e quindi li trascuri o li rimuova. I fattori e gli agenti di modernizzazione del boom e poi degli anni Sessanta sono cioè considerati (quando sono considerati!) come elementi di destrutturazione di ciò che li precedeva e non come componenti di nuove costruzioni culturali e sociali, come punti di arrivo e non come materia di studio in sé. Le identità e le strutture tradizionali, di cui la professione storica è ovviamente ottima conoscitrice e in qualche misura custode, sono ancora troppo spesso il vero e unico centro focale. Mentre gli agenti che le destrutturano – dal consumo all’auto-identificazione generazionale, dai nuovi protagonismi femminili ai linguaggi della cultura di massa – vengono ancora largamente considerati, e spesso chiaramente patiti, come eventi esogeni, come fenomeni possenti di cui si registra l’impatto ma di cui non si studiano le dinamiche, né si considerano poi le conseguenze, i lasciti, le onde lunghe. C’è in questo forse ancora una continuità con i modi in cui negli anni Sessanta la cultura pubblica – e la politica – guardavano al prorompere di fenomeni che erano difficili non solo da governare, ma prima ancora da riconoscere e concettualizzare. Nel lunghissimo decennio che si stende tra il “miracolo economico” e la crisi degli anni Settanta, quello della modernità sembrava un futuro al tempo stesso ineluttabile (tanto che non se ne immaginava un altro, se non nel suo rovesciamento radicale) e indeterminato, tanto da essere vissuto e agito come un percorso: una serie di tappe da conquistare metro dopo metro, o forse frigorifero dopo frigorifero , in un prolungato sforzo individuale e collettivo. La trasformazione poteva essere accelerata o rallentata, in una certa misura liberata o controllata, ma non davvero mutata nei suoi assi vettoriali, e i conflitti vertevano sulla velocità o meno dell’adattamento collettivo alle sue ripercussioni. E tuttavia ciò aveva luogo in un contesto culturale e in un sistema politico che premiava, rappresentava e riconosceva essenzialmente le figure dei produttori, in particolare se collettivamente organizzate (industria, lavoro, commercio ecc.). Anche quando questi agivano quali produttori – come i lavoratori nel 1968-69 –, ma con lo scopo esplicito e non troppo paradossale di poter divenire finalmente consumatori, di poter accedere pienamente al mercato (i cui prodotti e servizi andavano ridefinendo l’idea stessa di cittadinanza), rimaneva una tensione irrisolta tra il loro riconoscimento pubblico quali produttori e gli effetti delle loro azioni, che erodevano le basi stesse di quella identità.
Il convegno di Roma e gli interventi raccolti in questo volume vorrebbero insomma contribuire innanzitutto a varcare una soglia culturale e mentale, cominciando a considerare non più quel che venne sgretolato e superato, bensì ciò che le trasformazioni ancorate a questa triade di genere, generazione e consumi iniziarono a modellare, a ridefinire, a nutrire e costruire, in ultima analisi a imporre come nuovi spezzoni di identità collettive inedite. Lungi dal voler pretendere di fare dilettantescamente una sociologia di cui non siamo capaci, vorremmo viceversa tentare di avviare un’analisi prettamente storica di quali nuove figure e identità si affermino e di come esse contribuiscano a ridisegnare quelle più ampie e inclusive – nazione, classe, partiti ecc. – con cui abbiamo maggiore familiarità .
Si tratta insomma di guardare a questo lato dello spartiacque, alla storia che parte dagli anni Sessanta e non solo più a quella a cui gli anni Sessanta pongono termine. Questa ovviamente è una dicotomia di comodo, visto che la storia non inizia e non finisce in nessun punto; eppure risulta utile proprio perché gran parte della nostra cultura pubblica pare ancora pienamente prigioniera di tale dicotomia, e poca della nostra storiografia riesce a varcare lo spartiacque degli anni in cui nasce l’Italia contemporanea.
Il volume si articola in tre parti, ciascuna delle quali focalizza una delle categorie che sono state al centro della discussione durante il convegno, sebbene gli intrecci tra l’analisi dei processi di consumo e le categorie di genere e generazione attraversi inevitabilmente i singoli contributi. Ferdinando Fasce colloca la problematica di produzione e consumo nella prospettiva della agency, individuando tracce di ricerca per la storia del consumo e del consumerismo in Italia alla luce degli sviluppi della storiografia americana su questi temi. Una prospettiva presente anche nel contributo di Adam Arvidsson, che si interroga sulle relazioni simboliche che si creano tra culture del consumo e identità politica. Emanuela Scarpellini esamina l’impatto della diffusione dei supermercati nella società italiana, aprendo percorsi di ricerca che investono la dimensione dell’adattamento antropologico alle nuove modalità di vendita e consumo e il significato di mediazione sociale tra le classi assunto dagli spazi commerciali, simboli della ricchezza consumista e vettori di massificazione della società.
Roberta Sassatelli analizza il consumo e il consumatore rispettivamente come campo e attore politici, mostrando come le sfide poste dal mondo dei consumi postfordista rendano deboli e inefficaci le tradizionali azioni consumeriste volte alla difesa del consumatore e investano invece le condizioni stesse di funzionamento del mercato. Il rapporto tra consumi e identità collettiva è al centro della ricerca di Giulietta Stefani sulle immigrate italiane negli Stati Uniti. In queste comunità le pratiche di consumo assumono la forma di un bricolage identitario nel quale si mescolano simboli di appartenenza e beni di integrazione. Sandro Bellassai mette a fuoco i percorsi di crisi e ridefinizione dell’identità maschile di fronte all’impatto della società dei consumi degli anni Sessanta. Si tratta di un rapporto complesso, non risolvibile nei termini generici di permanenza e innovazione, ma che implica la ricostruzione di gerarchie di potere nel quadro di nuove costellazioni simboliche che definiscono l’identità di genere. li rapporto tra la modernità dei consumi e la persistente forza di ruoli e identità di genere è al centro del contributo di Jane Slaughter, che mostra come siano le stesse grandi aziende produttrici di beni di consumo a piegare i “vettori della modernità” dei quali sono portatrici a un sostanziale accomodamento con i nuclei resistenti del potere sociale. Una funzione importante nell’annuncio e nella legittimazione culturale del “miracolo” è assunta dalla pubblicità, che ne prospetta ed elabora modelli e figure occupando l’immaginario ben prima che la diffusione dei moderni consumi di massa si renda tangibile per la maggior parte della popolazione, come risulta dal contributo di Maria Chiara Liguori.
I contributi della terza parte del volume si interrogano sulla rilevanza della frattura generazionale nel rinnovamento della società italiana. Enrica Capussotti sottolinea l’importanza delle sale cinematografiche come luogo di socialità per le nuove generazioni e dei film come modelli per le pratiche di costruzione identitaria e rintraccia nelle tensioni e aspirazioni delle nuove generazioni negli anni Cinquanta i prodromi della crisi che esplode apertamente nel decennio successivo. Marica Tolomelli mette in luce la funzione storico-sociale dell’ aggregazione generazionale nella trasformazione della società italiana degli anni Sessanta e richiama l’importanza di un’indagine sulla generazione precedente, quella educata durante il fascismo .
Paolo Capuzzo, infine, decostruisce la categoria di “giovani” evidenziando le diverse declinazioni dell’esperienza generazionale in rapporto ai contesti geografici e agli ambienti sociali di provenienza e suggerendo un quadro della nuova generazione nel nostro paese che evidenzia significativi scarti rispetto ad altri paesi europei come l’Inghilterra e la Germania.