Volumi
PALMIRO TOGLIATTI

La guerra di posizione in Italia. Epistolario 1944-1964

a cura di Gianluca Fiocco e Maria Luisa Righi
Prefazione di Giuseppe Vacca
Einaudi, Torino 2014 | pp. 378, € 24,00 | 9788806220495

 
La svolta di Salerno, la questione di Trieste, la costituzionalizzazione dei Patti Lateranensi, l’attentato del 14 luglio 1948, il caso Vittorini, la rivolta di Budapest. Sono solo alcuni degli argomenti affrontati da Palmiro Togliatti nelle sue lettere, di cui questo volume – un’assoluta novità – raccoglie un’ampia selezione, dal suo rientro in Italia alla morte. Grazie al profilo e ai ruoli d’eccezione dei suoi corrispondenti (da Pietro Badoglio a Benedetto Croce, da Alcide De Gasperi a Romano Bilenchi, da Pietro Nenni a Vittorio Valletta, da Stalin a Giuseppe Dossetti) e alle caratteristiche delle lettere prescelte, l’Epistolario costituisce una lettura piacevole e vivace. Ogni lettera, corredata da un apparato di note brevi ed essenziali, è accompagnata da un’introduzione che la inquadra storicamente. Nella loro sequenza, le lettere e le introduzioni dei curatori compongono il racconto straordinario di un ventennio di vita italiana, fra cronaca e storia, vent’anni di lotta per l’egemonia nell’Italia della guerra fredda.

Indice

1. Per un’intervista sulla situazione italiana
2. Amnistia per i «disertori dell’8 settembre»
3. Le emozioni del ritorno
4. Badoglio sulla guerra italiana
5. L’azione del governo di Salerno
6. Una mediazione di Sforza fra Togliatti e Croce
7. I rapporti fra i partiti antifascisti al governo
8. Comunisti e democristiani per la creazione di un «blocco di forze popolari»
9. La possibile sostituzione di Bonomi
10. L’unità è la via maestra verso un regime di libertà e progresso
11. Il voto alle donne
12. I messaggi di Montini
13. Il Pei, gli artisti e il rinnovamento del paese
14. Una censura del comportamento dell’ambasciatore Tarchiani a Washington
15. La questione di Trieste e i conti con il fascismo
16. Trieste e i rapporti con la Jugoslavia
17. La nascita del governo Parri
18. Uomini e no
19. Il Luogotenente e la crisi del governo Parri
20. «Totus politicus»
21. Una sfida per la nobiltà della politica
22. A Thorez su
23. L’amnistia per gli ex partigiani incriminati
24. Una manovra «diretta a screditare l’esito del referendum»
25. Non ledere il prestigio della Magistratura
26. Un giudizio sulla politica di De Gasperi
27. Un invito di Luigi Russo
28. La promozione delle opere di Guido Dorso
29. Luigi Russo e i Quaderni del carcere
30. Una citazione contestata
31. Comunismo europeo e paure americane
32. Legge elettorale e strategia parlamentare
33. Precisazioni storico-letterarie
34. Troppa cavalleria verso De Gasperi
35. Sulle «bugie» e la «malevolenza» di Sceiba
36. Una lettera di Valletta dopo l’attentato
37. Ottobre 1917: «rivoluzione socialista» o «rivoluzione russa»?
38. Gli industriali e le vie del progresso sociale
39. Sulle Edizioni di Storia e Letteratura
40. Il processo al cardinale Mindszenty
41. Una operazione al cuore
42. Come si studia
43. Usa e Urss possono coesistere
44. Sul film Rìso Amaro
45. Una volgarità «plebea» su Gide
46. Direzione politica e vita intellettuale: una polemica con Massimo Mila
47. Una polemica con Salvemini
48. L’Illuminismo italiano e uno studio su Pietro Giannone
49. La Società europea di cultura: un progetto da combattere
50. Un giudizio sul partito laburista
51. Contro i critici incomprensibili
52. Sulla presunta collaborazione del PcdT con i nazisti
53. Le Memorie di Antonio Graziadei
54. Osservazioni su «Rinascita»
55. Un incontro mancato con Benedetto Croce
56. Un rifiuto a Stalin
57. Sulla «storia della Pietà»
58. Sulla Commissione culturale
59. Sul culto della personalità
60. Sulla «quistione di Milano»
61. Dopo la sconfitta della «legge truffa»
62. Sul divorzio di Teresa Noce e Luigi Longo
63. Per il controllo di «Movimento operaio»
64. Il carteggio Labriola-Spaventa
65. Sulla libertà di critica
66. I funerali di De Gasperi
67. Contro la poesia «moderna»
68. Sulla titolazione a Togliatti della Scuola centrale di Partito
69. Gli indirizzi della storiografia marxista
70. Sui rapporti fra il Pei e il Psi
71. Contro il Movimento federalista europeo
72. Sull’elezione del presidente della Repubblica
73. Sui finanziamenti stranieri
74. Il Metello di Pratolini
75. Tribunali militari e tattica parlamentare
76. Su Ventimila leghe sotto i mari
77. Sul rapporto Chruscev
78. Le bugie dell’«Espresso»
79. Sull’unificazione socialista
80. Repressione in Ungheria: la protesta degli intellettuali
81. A Giulio Einaudi, sull’intervento sovietico in Ungheria
82. Alla segreteria del Pcus sulla situazione in Ungheria
83. A Paolo Spriano sui fatti d’Ungheria
84. Considerazioni sul partito dopo i fatti d’Ungheria
85. Sandro Pertini sull’unificazione socialista
86. Sull’abitazione di Gramsci a Torino
87. Ad Antonio Giolitti. Una lettera non pervenuta
88. Per l’edizione delle opere di Antonio Banfi
89. La grande caccia delle Antille
90. Giuseppe Romita e il riformismo
91. Nel Parlamento non ci sono più solo «notabili»
92. Un volume «provvidenziale»
93. Auguri natalizi di Giorgio La Pira
94. Il centenario dell’Unità d’Italia
95. Sul film II Generale Della Rovere
96. Un viaggio urgente a Mosca
97. Il giovane Hegel di Lukics
98. «Ho sempre dato una preferenza a una candidata»
99. A un compagno dell’«Ordine Nuovo»
100. «Sto divenendo una cosa, giusto, d’altri tempi»
101. Una testimonianza su Curzio Malaparte
102. Osservazioni sul Vico di Nicola Badaloni
103. Misura e discernimento nell’«uso» del leader
104. Riconoscenza per l’affiliazione di Marisa Malagoli
105. L’adesione alla marcia Perugia-Assisi
106. Ritrovata a Leningrado una lettera di Vico
107. Il Vaticano e il dialogo Est-Ovest
108. Don De Luca ricambia gli auguri
109. Il più piccolo libro del mondo
110. Su una recente conferenza televisiva
111. La storia della famiglia Togliatti
112. Per l’edizione delle 2000 pagine di Gramsci
113. La regolamentazione della Tv
114. Sul concetto di «rivoluzione»
115. Momenti della storia d’Italia
116. Don Giuseppe De Luca
117. Sul film II Gattopardo
118. Gli indipendenti nelle liste del Pei
119. Evtusenko chiede aiuto
120. Sul neocapitalismo
121. Il Gramsci di Giuseppe Tamburrano
122. Il muro di Berlino
123. Sul ponte di Hiroshima
124. Per un articolo su «The Nation»
125. Su Pietro Tresso
126. Di ritorno dalla Jugoslavia
127. Esonerato dalla Segreteria, per motivi di salute
128. L’ultimo carteggio con Nenni
129. Una proposta di autobiografia
130. Togliatti e Gramsci
131. Per il «salvataggio» della Biblioteca Feltrinelli
132. Gli auguri di guarigione di don Giuseppe Dossetti

·····························································
Prefazione
di Giuseppe Vacca
Il 24 luglio 1946, intervenendo nel dibattito sulla fiducia al secondo governo De Gasperi, Togliatti replicava incidentalmente ai suoi oppositori:
Le rivoluzioni non le fanno i partiti. I partiti, se ne sono capaci, le dirigono e niente di più. Le rivoluzioni scoppiano quando le grandi masse lavoratrici sono ridotte a un punto tale che non possono più andare avanti, e le classi dirigenti si dimostrano incapaci di governare nell’interesse della Nazione.
Egli fissava così i caratteri della sua politica nella nascente democrazia italiana. Sancita dal referendum del 2 giugno la nascita della Repubblica ed eletto per la prima volta a suffragio universale un Parlamento investito del mandato di redigere la Costituzione, Togliatti vedeva andare a segno due obiettivi fondamentali del programma enunciato al suo rientro in Italiae con quell’inciso breve e pregnante piantava i paletti della «via italiana al socialismo». Ne spiegherà il significato più di sedici anni dopo, nel Rapporto al X Congresso del Pci (dicembre 1962):
È evidente che nell’affacciare questa prospettiva, noi introduciamo il concetto di uno sviluppo graduale, nel quale è assai difficile dire quando, precisamente, abbia luogo il mutamento di qualità. Ciò che prevediamo è, in paesi di capitalismo sviluppato e di radicata organizzazione democratica, una lotta, che può estendersi per un lungo periodo di tempo e nella quale le classi lavoratrici combattono per diventare le classi dirigenti e quindi aprirsi la strada al rinnovamento di tutta la struttura sociale.
A questa idea del socialismo corrisponde, sul piano strategico, la guerra di posizione.
Com’è noto, quella visione risaliva alla concezione gramsciana della politica come lotta per l’egemonia: una concezione secondo cui democrazia e socialismo non sono iscritti in temporalità distinte, ma stretti da una determinazione reciproca che supera le tradizionali forme di finalismo affidate al miraggio di una «città futura». Il progetto togliattiano si fondava, quindi, sulla democrazia dei partiti, nella quale il partito politico è un interprete della modernità che ambisce a orientarne la storia. Riesce difficile pensare che se la democrazia repubblicana non fosse stata «bloccata» dalle condizionalità della guerra fredda, Togliatti avrebbe mai lasciato la guida del partito per dedicarsi al governo. Dirigere il partito era il ruolo a lui più congeniale. Per un «rivoluzionario di professione» che aveva attraversato le tragedie della «guerra civile europea», l’attività di governo non rappresentava la massima aspirazione, mentre dalla direzione del partito Togliatti poteva ambire a orientare la vita nazionale sia sul piano politico, sia su quello «intellettuale e morale». Si delineava così uno stile della leadership del tutto particolare, di cui il messaggio epistolare era prassi quotidiana. Ha scritto Paolo Spriano, che ebbe modo di collaborare a lungo con lui:
L’ordine di Togliatti era […], prima di tutto, un ordine mentale, espresso da un cervello ben organizzato. Era anche l’ordine artigiano di un’epoca che ignorava i computers e persino la biro. Togliatti scriveva a mano, con la sua stilografica a inchiostro verde, faceva le cose da sé. Quando «l’Unità» doveva pubblicare il testo o il resoconto di un suo discorso importante, capitava in redazione la sera a correggerselo. Rispondeva alle lettere di chiunque si rivolgesse a lui: il compagno di base, il dirigente di partito, il docente universitario, l’amico e l’avversario politico. Cercava di essere persuasivo, era pedagogico.
Dalla sua scrivania partivano in continuazione bigliettini per le destinazioni più lontane come pure per i dirigenti della porta accanto. Preferiva la penna al telefono per fissare pensieri e direttive, chiedere consigli e fornire indicazioni. La raccolta della sua corrispondenza non è ancora completa, ma è possibile averne un’idea abbastanza precisa spogliando le lettere di e per Togliatti presenti negli archivi della Fondazione Istituto Gramsci. Fra i documenti del periodo 1944-64, le lettere, i copialettere, le note e gli appunti in forma epistolare sono quasi tremila. Le lettere scelte per questo volume sono quindi una piccola parte di quelle possedute dalla Fondazione e sono prevalentemente di Togliatti, ma sono tra le più significative. Sono per due terzi inedite, poche quelle parzialmente edite e le restanti, già pubblicate anche più volte, non sono mai state raccolte in volume. I criteri editoriali decisi insieme ai curatori mi esimono dal compito di premettere alla raccolta un saggio analitico. Ogni lettera è corredata da un cappello introduttivo che ne restituisce l’occasione e il contesto. Letti in sequenza, i cappelli compongono un racconto delle vicende politiche e culturali del ventennio giustificando la scelta di dare un titolo a ogni lettera.
Se si esclude la corrispondenza con Nilde Jotti, che peraltro non è in possesso della Fondazione, è piuttosto difficile stabilire i confini personali dell’epistolario di Togliatti. L’immedesimazione della sua biografia con la storia del Pci è cosi profonda che anche quando quei confini vengano individuati la sua corrispondenza non può mai dirsi del tutto personale. Abbiamo quindi scelto fra le sue lettere quelle in cui, pur nell’esercizio della responsabilità politica o istituzionale, l’impronta del carattere personale di Togliatti è più spiccata. Sotto questo aspetto il carteggio più significativo è quello con Giulio Einaudi, dedicato alla pubblicazione degli scritti di Gramsci, ma lo abbiamo escluso non solo perché è già stato interamente pubblicato, ma anche perché non sarebbe stato possibile contenerlo nelle dimensioni di questo volume. Sempre per ragioni di spazio, abbiamo dovuto limitare anche la corrispondenza riguardante altre iniziative editoriali di Togliatti, prima fra tutte la corrispondenza con il direttore della biblioteca Feltrinelli, Giuseppe Del Bo. Ma i carteggi più cospicui che abbiamo dovuto sacrificare riguardano le relazioni con i massimi dirigenti di alcuni partiti comunisti, cominciando naturalmente dal Pcus, e la corrispondenza con i militanti e i cittadini. Dei primi ci siamo limitati a pubblicare le lettere a Maurice Thorez (21 aprile 1946), a Stalin (4 gennaio 1951) e a Chruscév (30 ottobre 1956), perché riguardano momenti cruciali della biografia di Togliatti. La lettera a Thorez riassume gli argomenti che avevano ispirato la sua politica sul confine orientale e il destino della città di Trieste. Com’è noto, si tratta di un tema particolarmente sensibile della politica estera dell’Italia sul quale, pur essendo state pubblicate da tempo ricostruzioni incontrovertibili, la polemica storiografica volta a negare l’«italianità» della politica di Togliatti non è mai cessata. La rilevanza del problema e i mutamenti del contesto internazionale fra la primavera del 1945 e quella del 1946 ci hanno consigliato di pubblicare tre lettere di Togliatti sulla «questione di Trieste», fra le quali la lettera a Thorez è la più ricca di motivi personali. La lettera a Stalin è l’unica finora nota e, sebbene affronti temi generali del movimento comunista, ha uno spiccato risvolto personale poiché contiene il rifiuto – seppur politicamente motivato – della sua richiesta di assumere la guida del Cominform. La lettera a Chruscév, invece, è di carattere squisitamente politico, ma è la meno protocollare della corrispondenza tra i due leader del comunismo internazionale presente nell’archivio dell’Istituto Gramsci.
La corrispondenza con i militanti documenta l’impegno quotidiano di Togliatti nella costruzione del «partito nuovo» e la cura minuziosa della formazione intellettuale, degli orientamenti politici e talvolta delle vicissitudini personali dei militanti e dei dirigenti intermedi. Abbiamo potuto darne solo qualche esempio, mentre un ampio spoglio di questa parte della corrispondenza avrebbe un grande valore per ricostruire aspetti salienti della vita del «partito di massa». Né sarebbe meno importante pubblicare lo corrispondenza con i simpatizzanti e con i semplici cittadini. L’unica ricerca di cui disponiamo in proposito dimostra quanto quelle carte siano rappresentative di mentalità e umori molto diffusi, «molecolari» e al tempo stesso stratificati.
Dovendo fare una scelta drastica, abbiamo quindi optato per le lettere che documentano soprattutto i rapporti con uomini politici e con rilevanti figure intellettuali. Le prime hanno una diversa densità: gli scambi epistolari più significativi si svolgono nel triennio 1944-47, nel quale il Pci partecipava al governo, e abbiamo dato priorità alla corrispondenza con Badoglio e con De Gasperi, che furono i principali interlocutori di Togliatti in quel periodo. Fa parte di questa corrispondenza anche il carteggio Bonomi, riguardante un capitolo cruciale della transizione dalla caduta del fascismo all’«avvento» di De Gasperi. Il carteggio è di una certa consistenza, ma nell’economia di questa raccolta non sarebbe stato possibile pubblicarlo interamente: ci siamo quindi limitati a riprendere solo la lettera a De Gasperi del 30 novembre 1944 in cui Togliatti gli comunicava la richiesta congiunta di Pci e Psi della sostituzione di Bonomi.
I rapporti con il Psi e specificatamente con Nenni sono invece poco documentati poiché fino al 1956 il patto di unità d’azione fra i due partiti determinava una consuetudine di colloqui e decisioni concordate fra i loro organismi dirigenti che solo di rado davano luogo a scambi epistolari. Questi furono più frequenti dal 1956 in poi, soprattutto nel periodo di incubazione e di avvio dei governi di centrosinistra: la crisi originata dal XX Congresso del Pcus e dalla repressione sovietica dell’insurrezione ungherese aveva portato alla rottura dell’unità d’azione, tuttavia i «rapporti unitari» non vennero del tutto meno, né cambiarono i rapporti personali, come dimostrano lo scambio di lettere fra Nenni e Togliatti sull’unificazione socialista (ottobre 1956) e ancor più quello amichevole sulla tattica parlamentare dei rispettivi partiti, del maggio 1964.
La scelta di dare uno spazio più ampio ai rapporti con il «mondo cattolico» richiede una spiegazione. Si tratta innanzitutto dei rapporti con il Vaticano, con cui Togliatti prese contatto subito dopo il trasferimento del governo a Roma (giugno 1944). Fin dai tempi del VII Congresso dell’Internazionale egli si era adoperato per dare al Pci una politica ecclesiastica riuscendo a stabilire dei contatti con il Vaticano. Nel suo Rapporto al VII Congresso si prevedeva che Hitler avrebbe scatenato una nuova guerra mondiale e che tutta l’Europa sarebbe stata occupata dalle armate tedesche. Questa eventualità poneva all’ordine del giorno il tema della «guerra di liberazione nazionale» e perciò i Fronti popolari avrebbero dovuto evolvere verso Fronti nazionali. Togliatti ribadì questa prospettiva anche nell’intervento all’Esecutivo del Comintern dell’agosto 1938 convocato da Stalin per riorientare i partiti comunisti in vista del rapprochement con la Germania, affermando che in Italia l’unità antifascista avrebbe dovuto comprendere anche la Santa Sede. Non sorprende, quindi, che nel ’44 allacciasse rapporti con il Vaticano e, consapevole del ruolo che esso avrebbe avuto nella politica italiana dopo la fine della guerra, desse particolare impulso al dialogo con il «mondo cattolico». Il tema è ampiamente studiato dalla storiografia sull’Italia repubblicana e non è il caso di riprenderlo qui. Vi ho accennato per giustificare la particolare attenzione dedicata in questa raccolta alla corrispondenza di Togliatti con eminenti personalità cattoliche, laiche e religiose. Essa ci consente di seguire anche lo sviluppo della sua sensibilità e della sua riflessione sull’emergere di un nesso di problemi originati dalla mondializzazione della guerra fredda e dalla globalizzazione della politica e dell’economia che si riverberavano nella crescente tensione fra democrazia e secolarizzazione. Negli ultimi anni di vita, incalzato dalla crisi internazionale del comunismo, quella sensibilità e quella riflessione indussero Togliatti a sviluppare una profonda revisione ideologica. Il carteggio con don Giuseppe De Luca, le lettere di Ada Alessandrini, quelle scambiate con Giorgio La Pira e la testimonianza finale della lettera di don Dossetti ci sono sembrati documenti esemplari di quel dialogo e riscontri significativi dei suoi sviluppi.
Come ho detto all’inizio, l’altro filone principale di questa raccolta riguarda i rapporti fra il Pci e gli intellettuali. È un campo non meno esplorato degli altri sui quali ho richiamato l’attenzione, e nel quale le lettere selezionate sono prevalentemente edite. Pur nella limitatezza dello spazio disponibile, abbiamo cercato di documentare i rapporti di Togliatti con gli intellettuali lungo tutto l’arco dell’epistolario per ragioni che conviene accennare brevemente. Il tema è il più dibattuto nella letteratura e sui media sia per affermare la presunta egemonia culturale del Pci, sia per denunciarne il perseverante dirigismo. Alla prima tesi si può obiettare che nel pensiero di Gramsci, a cui si fa mostra di ricorrere, l’egemonia culturale è una componente della direzione politica, quindi non si può sostenere che un partito non legittimato a governare, qual era il Pci, abbia detenuto l’egemonia culturale. La seconda, speculare alla prima, origina dalla tragica esperienza del comunismo mondiale, ma è poco pertinente se riferita all’Italia. La tesi dello «zdanovismo culturale» del Pci togliattiano è alimentata dalla persistente impostazione del dibattito sugli intellettuali in chiave di autonomia-eteronomia, mentre la politica culturale di Togliatti, ispirata al pensiero di Gramsci, partiva dal ruolo degli «intellettuali come massa» I quali, volenti o nolenti, sono «i funzionari delle sovrastrutture».
In altre parole, nell’esplicazione delle loro attività professionali assolvono sempre compiti di mediazione ideale dei rapporti di potere. Il problema quindi è quello della consapevolezza e responsabilità civile con cui esplicano le loro funzioni e i partiti politici non possono disinteressarsene rinunciando a sollecitarne il confronto con le proprie «filosofie» e i propri programmi. Ovviamente il discorso non vale per i regimi totalitari, ma stiamo parlando dell’Italia repubblicana. Nel dare spazio all’attenzione di Togliatti per gli indirizzi di ricerca e gli orientamenti politici degli intellettuali abbiamo quindi inteso evidenziare un aspetto peculiare del suo stile politico, suggerendo la necessità di non fermarsi alle cronache della politica culturale del Pci, ma di risalire ai suoi fondamenti, cioè alla strategia politica e all’ambizione del «partito nuovo» di influire sui caratteri originari dell’intelligenza italiana. Questo sottolinea la necessità di storicizzare i diversi momenti e persino gli umori della corrispondenza di Togliatti, tenendo conto dei condizionamenti di una leadership prestigiosa italiana e internazionale, vincolata a un «legame di ferro» con l’Unione Sovietica. Da questo punto di vista le lettere del 1956, sia di contenuto squisitamente politico sia di contenuto culturale, indirizzate a intellettuali comunisti, fanno blocco e documentano non solo l’acutezza della crisi che colpi il Pci, ma anche una notevole capacità di affrontarla dando corpo a innovazioni politiche e culturali avviate già nel 1954.
Anche le ricorrenti risposte o richieste di rettifica rivolte ai direttori di quotidiani e periodici spesso di orientamento azionista o radicale, fanno parte della corrispondenza riguardante gli intellettuali. Si tratta quasi sempre di interventi politici più che di vere e proprie lettere, ma sono un’espressione significativa dello stile della leadership di Togliatti. Ne abbiamo incluso solo un campione, anche se spesso già pubblicate su quotidiani come «Il Tempo» o «La Stampa» e periodici come «L’Europeo», «Il Mondo» e « I,’Espresso», scegliendole fra le più rappresentative dell’asprezza della «battaglia delle idee» o delle colpevoli omissioni di Togliatti dinanzi a incalzanti denunce dell’anticomunismo democratico. Ma sono anche un documento delle falsità propagandistiche di cui si nutriva  da ambo le parti la guerra fredda. Oggi, a una certa distanza dalla sua fine, l’impegno di Togliatti in quelle battaglie può essere compreso meglio. Abbiamo ricordato all’inizio come esso costituisse un tratto distintivo della concezione della politica come lotta per l’egemonia. La ricerca storica su mezzo secolo di guerra fredda rende sempre più evidente che la vera posta in gioco era la conquista dell’opinione pubblica mondiale. Dunque, il ruolo degli intellettuali era fondamentale e finiva per costituire il fronte più  «vanzato della guerra di posizione. Secondo Togliatti, in Italia la  disposizione originaria delle forze era l’elemento decisivo per mantenere aperta la prospettiva di un’«avanzata nella democrazia nella pace verso il socialismo». Conviene quindi concludere queste brevi riflessioni con il bilancio di venti anni di lotte politiche che egli fece nell’editoriale del primo numero di «Rinascita» settimanale (5 maggio 1962):
Sono vent’anni che si combatte, in Italia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di progresso e rivoluzione, l’altra di conservazione e reazione, si affrontano e misurano in un conflitto che ha avuto le più diverse fasi, nessuna delle quali, però, si è conclusa in modo tale che potesse significare il sopravvento definitivo dell’uno o dell’altro dei contendenti. Tentò di avere un sopravvento definitivo prima un ministro di polizia con provvedimenti di tipo fascista, poi De Gasperi con le sue leggi truffa e «polivalenti», poi altri uncora; ma tutti invano. Il gigante dell’energia popolare non ha potuto essere messo a terra. Quale l’origine di questa situazione? Essa è la conseguenza di un fatto che non può più e non potrà mai esser cancellato. Le classi popolari sono diventate, in un momento decisivo della storia nazionale e della vita dello Stato italiano, protagoniste di questa vita e di questa storia. Esse e non il vecchio ceto dirigente e privilegiato hanno organizzato e diretto la Resistenza, la Guerra di Liberazione, la riconquista di un regime di democrazia e di progresso.
Da questo dato di fatto parte e sopra di esso si fonda tutta la situazione del nostro paese. Ed è un dato che non muta, che conserva tutto il suo valore, nonostante le trasformazioni profonde che la situazione stessa subisce.