Volumi
LA LINEA INESISTENTE

VIAGGIO LUNGO LA EX CORTINA DI FERRO

Catalogo della mostra
Davide Monteleone
Contrasto, Italianieuropei 2009
pp. 151, € 25,00 | 788869652370

Un viaggio lungo un percorso, accidentato ed emblematico, della ex cortina di ferro. Un viaggio nello spazio e nel tempo, lungo le tracce e i segni di una storia che a volte sembra esser stata cancellata toppo in fretta.
La cifra scelta è quella del diario, della testimonianza vibrante e diretta, tra vite vissute, esperienze patite, immagini e immaginazione. Diari come viaggi nella memoria in cui noi tutti possiamo ritrovarci, figli come siamo di questa Europa un tempo divisa, che ancora oggi stenta a ritrovare il senso e la forza di una vera unità.
Il volume  – parte di un progetto insieme a un convegno –  raccoglie le immagini esposte in mostra nello “Spazio Fontana” del Palazzo delle Esposizioni a Roma.

Indice

Prefazione di Andrea Péruzy e Roberto Koch
Il 1989 e il nostro mondo di Silvio Pons
Viaggio fotografico: Cortina di ferro
Viaggio fotografico: Berlino
Voci dalla guerra fredda
Dagli archivi del National Security Archive (Washington D.C.)

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Prefazione
di Andrea Péruzy e Roberto Koch
Il ferro, intrecciato come in una griglia, costituiva a tratti la vera e propria linea di confine che dal secondo dopoguerra fino alla caduta del Muro di Berlino divideva il mondo “occidentale” da quello sovietico.
Così, la cortina di ferro evocata da Winston Churchill (ma prima di lui anche da Joseph Goebbels) come nuova sistemazione politica e culturale dell’Europa, era certamente la metafora del nuovo mondo uscito dilaniato e frantumato dalla tragedia della guerra, il simbolo di una impossibilità e di una negazione, l’ostacolo alla piena comprensione tra i popoli (che pure era l’ambizione su cui nacque la Società delle Nazioni) ma anche la vera, fisica, pesante e metallica separazione tra i due mondi. “Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico”, come proclamò Churchill, quella striscia lunga settemila chilometri era di ferro, di cemento, di paura. Era una ferita aperta per l’Europa intera che visse quaranta anni adattandosi a quell’assurda divisione.
Nel 1989 la cortina di ferro è crollata, il Muro è stato abbattuto e il ferro si è disciolto rapidamente, con l’euforia e II timore che accompagna le grandi svolte storiche. Ma lasciando cosa?
Questo volume propone al lettore un viaggio lungo il percorso, accidentato ed emblematico, della ex cortina di ferro. Un viaggio nello spazio, certo, ma anche nel tempo per cercare di ritrovare le tracce e i segni di una storia che a volte sembra essere stata cancellata troppo in fretta, come un Intoppo della coscienza che è necessario rimuovere per procedere oltre.
Davide Monteleone, nato in un mondo già diviso, ha intrapreso il suo viaggio scoprendo, con la sensibilità del reporter e la visionarietà del fotografo, come al dissolversi della cortina sia comunque rimasto un paesaggio con molte soluzioni di continuità ancora vive e forti fino nelle architetture, nei volti, nelle abitudini. Di quella linea di confine scomparsa da venti anni, oggi non rimane che un luogo mentale, un tragitto da percorrere da Nord a Sud e viceversa, da attraversare liberamente da Est a Ovest e da Ovest a Est. Ma un luogo da scoprire e da interrogare.
Il viaggio di Monteleone è fatto di sguardi, annotazioni, evidenze, letture e studi, conferme e scoperte. Soprattutto, è fatto di tappe; alcune scelte e decise in base a una strategia precisa, altre casuali – come spesso accade a chi viaggia. E ogni tappa, ogni fermata del viaggiatore-giornalista, è segnata da un dittico, due scatti che guardano uno a Ovest e uno a Est, per scoprire come sono oggi i paesaggi “oltre” e “al di qua” della cortina, chi abita quelle terre, quale innovazione o involuzione sociale possa essere avvenuta nei luoghi un tempo sorvegliati e inaccessibili. Il viaggio si conclude, e non poteva essere altrimenti, a Berlino. Città emblematica, luogo simbolo come pochi altri dell’Europa, Berlino ha portato incisa, sulla propria pelle e nelle sue strade, la cicatrice della ferita della storia: la divisione del Muro. In questa città l’autore ha cercato di raccogliere le atmosfere che potevano essere quelle di un tempo. Ha provato a rintracciare nei volti, nei paesaggi, nelle luci, nelle case, un’aria ipoteticamente scomparsa.
Alla fine del viaggio, il lettore troverà una serie di documenti, tratti dal National Security Archive, che fanno rivivere, attraverso le parole dei protagonisti, i giorni e i mesi che precedettero la caduta del Muro di Berlino. Sono stralci di ricordi, resoconti di telefonate e incontri ufficiali tra i leader politici che restituiscono, in modo caldo e sentito, quei momenti concitati in cui sembrò che il mondo intero potesse cambiare.
Perché la cifra che abbiamo scelto per il nostro libro, in fin dei conti, è quella proprio del diario, della testimonianza vibrante e diretta, tra vite vissute, esperienze patite, immagini e immaginazione. Diari come viaggi nella memoria in cui noi tutti possiamo ritrovarci, figli come siamo di questa Europa un tempo divisa, che ancora oggi stenta a ritrovare il senso e la forza di una vera unità.

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Il 1989 e il nostro mondo
di Silvio Pons
«L’anno 1989 è stato uno dei migliori della storia europea. Mi è anzi difficile spingermi a pensarne uno migliore. È stato un anno nel quale il mondo guardava all’Europa, e specificamente all’Europa centrale e, nel momento topico, a Berlino. La storia mondiale, usando il termine in un senso quasi hegeliano, veniva fatta nel cuore del vecchio continente, proprio sulla strada della vecchia università di Hegel, ora chiamata Università Humboldt. Venti anni più tardi, sono tentato di speculare (…) che questa possa essere stata anche l’ultima occasione, almeno per un lungo tempo, nella quale la storia mondiale è stata fatta in Europa. Oggi la storia mondiale viene fatta da qualche altra parte. C’è un Café Weltgeist all’Università Humboldt, ma il vero Weltgeist [spirito del mondo] se ne è andato». Così scrive uno dei più noti storici e intellettuali pubblici del nostro tempo, Timothy Garton Ash, in occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro di Berlino. Le sue parole forniscono più di un significato alla rievocazione del 1989. Rimandano alla centralità di quell’anno nella recente storia europea e nella memoria che fonda, o dovrebbe fondare, la coscienza europea. Ma parlano anche di un’epoca ormai lontana e perduta, resa distante da una nuova storia globale che rappresenta ormai la scena del nostro tempo. Quale allora il rapporto tra il 1989 e il mondo in cui viviamo? Se la storia e la memoria continuano a costituire, nella nostra cultura, basi irrinunciabili della costruzione del futuro, che significato attribuire all’ultimo evento di portata mondiale della storia europea? La fine della cortina di ferro e la caduta del Muro di Berlino sono ancora eventi simbolici costitutivi della nostra identità o sono soltanto la coda di un’epoca tramontata e da dimenticare, destinata a svanire nel passaggio delle generazioni? Le immagini di quei giorni e di quel mondo toccano ancora corde profonde nella nostra memoria collettiva, oltre che nel ricordo personale di ciascuno di noi?
L’89 fu molte cose insieme. Una rivoluzione iscritta nella storia rivoluzionaria europea, idealmente collegata a date come il 1789, il 1848, il 1917-18. Il collasso di un sistema che aveva origini in quella stessa storia rivoluzionaria. La fine del comunismo europeo come movimento e come cultura politica. La fine della “guerra fredda” e dell’ordine europeo stabilito dopo la Seconda guerra mondiale. Ciò significa che furono in azione forze storiche profonde. Eppure non evidenti. All’inizio o persino a metà dell’anno, i contemporanei non potevano neppure lontanamente immaginarsi la spettacolare catena di eventi di cui dovevano essere testimoni di lì a poco. L’Est europeo era in subbuglio e aveva alle spalle una storia di insubordinazione, ma anche di occasioni perdute e di feroci repressioni, con l’intervento diretto o indiretto dell’Unione Sovietica (nel 1953 in Germania orientale, nel 1956 in Polonia e in Ungheria, nel 1968 in Cecoslovacchia, nel 1981 in Polonia). Il cambiamento e la liberalizzazione invocate da Mikhail Gorbaciov a Mosca erano promettenti ma richiedevano ancora di essere sottoposti alla verifica di un test importante. I simboli della cortina di ferro erano ancora in piedi e la “dottrina Breznev” (la teoria della sovranità limitata messa a punto all’epoca della repressione della “primavera di Praga”) non era stata ufficialmente ripudiata. A seconda del loro punto di osservazione, gli europei a Est e a Ovest provavano sentimenti misti di partecipazione e scetticismo, di speranza e cautela. Ma la fine della divisione dell’Europa restava un sogno.
Le riforme avviate in Polonia nel marzo-aprile, con l’apertura di un negoziato tra il governo e il sindacato indipendente di Solidarnosc, potevano sembrare una peculiarità nazionale. La nascita di un’opposizione legale attorno alla forza simbolica e politica costituita da Solidarnosc, la sua vittoria elettorale in giugno, la nascita in agosto del primo governo del dopoguerra guidato da un non comunista, Tadeusz Mazowiecki, costituivano già una sequenza straordinaria. Ma non era affatto chiaro se fossero il prologo di un fenomeno generalizzato. In ogni caso, sembravano prefigurare una strada gradualista e riformista, destinata a durare nel tempo prima di allargare e approfondire la dimensione del cambiamento. Invece si produsse un’improvvisa accelerazione dal momento in cui l’apertura del confine dell’Ungheria con la Repubblica Federale Tedesca, in settembre, consentì un esodo di massa dei tedeschi dell’Est, nel corso dei decenni impedito soltanto dal filo spinato e dall’impiego della forza. Le manifestazioni di massa spontanee nate nella città di Lipsia si reiterarono e si propagarono a macchia d’olio. A quel punto, l’ennesima crisi dell’Est europeo si trovò dinanzi a un bivio drammatico. Come era accaduto in passato, la soluzione passava necessariamente per Mosca. Ma questa volta il risultato venne rovesciato.
Gorbaciov guardò alla rapida disgregazione del regime tedesco orientale senza muovere un dito e senza aprire spiragli alla tentazione della risposta repressiva. Rinnegò il nesso ferreo tra le conquiste geopolitiche della Seconda guerra mondiale e la legittimazione imperiale dell’URSS, lasciato in eredità da Stalin ai suoi successori. Liquidò come obsoleta e inservibile una concezione del potere che avrebbe portato alla ripetizione delle tragedie e degli atti di forza del 1953, del 1956, del 1968 e del 1981. Privo del sostegno militare sovietico, il regime tedesco orientale non poteva letteralmente sopravvivere.
Il cambiamento dall’alto e la spinta dal basso si combinarono in un circolo virtuoso. Il 9 novembre l’annuncio dell’apertura delle frontiere portò in poche ore alla caduta del Muro di Berlino. Ne seguì il più classico degli effetti domino, al quale le grandi potenze mondiali poterono soltanto assistere, da Mosca come da Washington. A differenza delle rivoluzioni del passato, i media giocarono un ruolo decisivo, amplificando i messaggi, moltiplicando la circolazione delle notizie e delle immagini, determinando la vertiginosa velocità degli avvenimenti. In poche settimane, tutti i regimi comunisti implosero e gli europei orientali se ne liberarono in una successione di “rivoluzioni di velluto” (la celebre formula fatta propria da Vaclav Havel) a Budapest, Praga, Sofia e infine, nell’unico avvenimento cruento, a Bucarest.
Questa sbalorditiva concatenazione ci appare oggi ovvia e ineluttabile. Ma così non era. La guerra fredda e i regimi comunisti sarebbero potuti precipitare in una catastrofe immane. A essere mirabili non furono soltanto quegli eventi in se stessi, ma il modo in cui si verificarono. Malgrado la portata radicale ed epocale delle sue conseguenze, l’89 fu una rivoluzione pacifica senza precedenti storici. Proprio il suo carattere pacifico induce anzi a ripensare la nozione stessa del termine “rivoluzione”. La tragica eccezione fu la Cina, dove l’ondata di cambiamento arrivò ma venne stroncata nel sangue nell’eccidio degli studenti in piazza Tiananmen all’inizio di giugno. Tuttavia l’esempio cinese non venne seguito in Europa e in Unione Sovietica. Coerente con i suoi enunciati sulla rinuncia all’uso della forza, Gorbaciov respinse il modello alternativo proposto con la sanguinosa repressione della “primavera di Pechino” e l’opzione di un autoritarismo di mercato come via per la transizione al post-comunismo. Tiananmen divenne un monito invece che un’opzione. L’idea di usare la forza venne certamente accarezzata da alcuni leader politici e militari nel blocco comunista, e il rischio di un eccidio fu probabilmente sfiorato nella Germania orientale. Ma lo scenario di un bagno di sangue non si ripetè, malgrado i tristi precedenti del passato, o proprio in ragione di essi. Il movimento non violento europeo e il suo impulso libertario non vennero arrestati. Così l’89 portò alla riunificazione della Germania in meno di un anno. Così preparò il crollo dell’Unione Sovietica e la dissoluzione della sua compagine imperiale, anch’esso avvenuto pacificamente due anni dopo.
Perché l’89 fu una rivoluzione pacifica? Perché i regimi comunisti cedettero il potere con tanta facilità? Queste domande accompagneranno a lungo la riflessione storica. Ancora oggi stentiamo a congiungere in un modo soddisfacente la narrazione dell’anno con la narrazione dell’epoca che allora si concluse. La strada più seguita è quella di fare ricorso all’influenza di singole personalità, le cui scelte e inclinazioni avrebbero largamente determinato il corso degli eventi. Animati da mentalità e obiettivi diversi, Lech Walesa, Giovanni Paolo II, Gorbaciov ci appaiono ancora oggi gli eroi e i protagonisti della rappresentazione, non molto diversamente da come apparvero ai contemporanei. La distribuzione dei ruoli storici e delle responsabilità può cambiare a seconda dei punti di vista e può modificarsi con il progresso delle conoscenze documentali. Ma ciascuno di quei personaggi presentò un’innegabile statura carismatica e ciascuno di essi contribuì a una soluzione pacifica, interpretando a suo modo aspirazioni e speranze che intersecavano la vecchia cortina di ferro.
E tuttavia, il ruolo delle personalità non può bastare per capire la nostra storia. La profondità delle forze all’opera va cercata altrove. La crisi del comunismo aveva radici intrecciate nell’economia, nella società, nella cultura e nell’ambiente internazionale. La guerra fredda non era la stessa di trent’anni prima e non aveva più la centralità posseduta in passato, anzitutto per le generazioni più giovani. E lo stesso si può dire per il comunismo. Anche l’Europa era cambia- ta, attraverso processi di integrazione e politiche di distensione che avevano consolidato il suo nucleo prospero e democratico, promuovendo nel contempo forme di collaborazione economica che erodevano silenziosamente i confini tra i due blocchi. La Ostpolitik tedesco-occidentale fu decisiva per stabilire al centro dell’Europa una forma di interdipendenza e un principio di possibile riunificazione, che indeboliva la segregazione sulla sponda orientale e rafforzava la prospettiva di un’evoluzione pacifica. In un rapporto non sempre facile con le logiche della distensione, la questione dei diritti umani aveva assunto un peso e una centralità nella cultura europea, anzitutto grazie al coraggio dei dissidenti dell’Est, creando a sua volta un linguaggio volto a negare l’eredità della divisione del continente e a delegittimare i regimi comunisti.
L’89 si svolse in un mondo interdipendente che già conosceva la crisi del bipolarismo, la società post-fordista, la globalizzazione economica, tecnologica e culturale. Sotto l’impulso di una corrosione, avviata da tempo, degli ordinamenti internazionali e degli spazi politici emersi dopo la Seconda guerra mondiale. Nel contesto di un cambiamento dei linguaggi, dei costumi e dell’idea stessa di modernità, che rendeva marginali, inefficaci e irreparabilmente obsolete le soluzioni offerte dall’esperienza comunista. Nella prospettiva di una crescente chance di comunicazione e circolazione delle informazioni, che consentiva ora a qualunque cittadino dell’Est di compiere un confronto impietoso tra la propria qualità della vita e quella possibile sulla sponda opposta. La militarizzazione, lo stato di polizia, la separatezza, la politica di potenza, la censura sulla storia, la negazione delle scelte individuali, tutti i principali elementi costitutivi dei totalitarismi comunisti, avevano senso in un mondo dominato dalla guerra fredda, ma lo perdevano, e lo persero, in un mondo che non lo era più. Il comunismo e la guerra fredda avevano smarrito senso e legittimità agli occhi della stragrande maggioranza degli europei.
È a partire da qui che possiamo capire il cambiamento grande e pacifico dell’89. Sapendo che senza comprensione storica non si produce memoria, ma si elabora soltanto il suo rito. Sotto questa luce, le frustrazioni e i ripensamenti che sono emersi negli ultimi vent’anni, provocando atteggiamenti di distacco critico se non anche di malcelata nostalgia per il passato (a dire il vero, molto più in Russia che non nell’Europa centro-orientale), ci appaiono indebite e ingiuste. La loro origine non sta nell’89, ma nel modo in cui è stato allora superficialmente celebrato in buona parte dell’opinione pubblica: come la “fine della storia”, che avrebbe aperto un’epoca di progresso e di prosperità a portata di mano, sotto il segno del liberismo e del liberalismo. Questo non è successo, per il semplice motivo che non poteva succedere.
Il post-89 ha registrato l’unificazione dell’Europa, con la nascita dell’Unione e dell’euro, ma anche le guerre etniche e religiose nell’ex Jugoslavia; la transizione alla democrazia dei principali paesi dell’Europa centro-orientale, ma anche la nascita di una democrazia autoritaria in Russia; transizioni al mercato molto diverse tra loro e performance più fragili del previsto, conquiste sociali ancora più incerte e differenziate. La condanna morale del comunismo non si è sempre dimostrata un’acquisizione irreversibile, o all’opposto ha dato luogo a eccessi e a strumentalizzazioni politiche. Molti sogni di un’Europa politicamente integrata e potenza civile influente negli affari mondiali sono naufragati sotto l’impatto del mondo globale.
Perciò la memoria di quell’anno è una memoria controversa. Eppure, l’89 resta parte del nostro mondo, perché si è svolto in un mondo già simile a quello in cui viviamo, perché ha lasciato su di esso un’impronta così forte da modellarne e accelerarne la trasformazione, perché ha fatto emergere gran parte delle culture, dei linguaggi e degli spazi che oggi ci definiscono. Le immagini che lo rievocano parlano di noi.