WELFARE SCANDINAVO, WELFARE ITALIANO

Il modello sociale europeo
a cura di Paolo Borioni
Roma, Carocci 2005
pp. 158, € 15,50 | 9788843037209

 
Atti del convegno promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci, Roma 22-23 aprile 2004
 
Esistono, a detta di molti esperti ed osservatori, sostanzialmente quattro tipi di Stato sociale europeo. Quello anglosassone, efficiente ma non molto equo; quello europeo continentale, equo ma non efficiente; quello mediterraneo, relativamente poco efficiente ed equo; e quello nordico, equo ed efficiente. Questo volume propone una comparazione storico-sociale fra lo Stato sociale nordico e quello italiano, cercando di cogliere spunti e riflessioni utili ai fini di incentivare competitività e coesione dell’Europa nel suo insieme. È possibile una proficua contaminazione’ Come possono contribuirvi le istituzioni dell’Unione e i valori del Trattato Costituzionale’ Da queste comparazioni possono scaturire indicazioni che ispirino un rilancio dell’Unione’ E i problemi di bassa crescita dell’area dell’euro dipendono solo dai limiti dei modelli sociali o anche dalla mancanza di politiche espansive’ Queste le tematiche al centro del presente volume, che raccoglie i contributi di alcuni tra i maggiori specialisti europei della materia.
 
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Indice

Introduzione di Enzo Bartocci e Paolo Borioni
 
Trovare il bandolo della crescita per salvare il modello sociale europeo di Salvatore Biasco
1. Le rappresentazioni
2. Visioni statiche e dinamiche dei fattori di offerta
3. Al primo posto, le aspettative
4. L’insegnamento fuori dall’ideologia
5. Non c’è bisogno di abbandonare il rigore in un sistema di contrappesi
6. Non c’è tempo
 
I fondamenti normativi del welfare scandinavo di Bo Stråth
1. Le tre dimensioni del folk
2. La figura del coltivatore: eguaglianza e libertà
3. La dimensione religiosa: comunità senza olismo
4. Il bildning/dannelse come strumento di autorealizzazione
 
La flexicurity scandinava: inclusione e competizione di Paolo Borioni
1. Alcuni presupposti, continuità e differenze
2. Welfare, formazione e flessibilità in Danimarca
3. La flexicurity in Svezia
4. Considerazioni conclusive
 
La socialdemocrazia nordica e quella europea dinanzi al futuro di Urban Lundberg e Klaus Petersen
1. La crisi della socialdemocrazia
2. Ma quanto è socialdemocratico lo Stato sociale’
3. Retrospettiva storica
4. La ristrutturazione degli anni Novanta
5. E ora’ In quale direzione’
Stato-nazione, welfare e populismo in Danimarca e in Italia di Gert Sørensen
 
I diritti di cittadinanza nel modello italiano: dalla società industriale alla postmodernità di Enzo Bartocci
1. Premessa
2. I principi costituzionali
3. L’ambiguità della struttura binaria
4. La mancata ricezione del ’Piano Beveridge’
5. Le mancate riforme del periodo centrista
6. I limiti del centro-sinistra
7. La crisi del welfare state
8. La nuova questione sociale L’Italia verso il welfare: dalla Commissione D’Aragona alle inchieste parlamentari degli anni Cinquanta di Gianluca Fiocco
 
Uno spazio da riempire: le parti sociali tra relazioni industriali e welfare di Mimmo Carrieri
1. Il modello sociale nei capitalismi europei
2. L’importanza della partnership sociale
3. Il livello europeo delle relazioni industriali: ancora in mezzo al guado
4. I passi avanti della cittadinanza sociale
5. Immaginare un compromesso neosocialdemocratico
 
Diritti e politiche sociali nel progetto di Trattato costituzionale europeo di Cesare Pinelli
1. Premessa
2. Stato sociale e mercato europeo: le ragioni di un doppio successo
3. Perché l’ipotesi di uno Stato sociale europeo non si è mai posta concretamente
4. La nozione di ’politiche sociali’ nei trattati europei
5. Lisbona e Nizza
6. Uno sguardo al progetto di Trattato costituzionale
 
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Introduzione
di Enzo Bartocci e Paolo Borioni
Welfare scandinavo, welfare italiano, il modello sociale europeo, che la Fondazione Brodolini e la Fondazione Istituto Gramsci hanno organizzato il 22 e il 23 aprile 2004 presso l’Accademia di Danimarca, a Roma. L’idea di radunare validissimi esperti (di cui però alcuni fra i più illustri, come Massimo Paci, Mario Telò, Umberto Carabelli e Pauli Kettunen non hanno potuto essere presenti in questa antologia) è nata da alcune considerazioni che appunto esponiamo in questa Introduzione.
Tra le diverse famiglie di welfare state esistenti in Europa anche senza voler far riferimento alla distinzione operata da Maurizio Ferrera che parla di quattro Europe sociali, di certo welfare scandinavo e welfare italiano si trovano per molti versi agli opposti. Il primo ha sviluppato, più di ogni altro, un carattere universalistico anche per quanto riguarda le indennità di malattia e maternità che in Svezia e Finlandia vengono concesse anche a chi non è presente sul mercato del lavoro. Per cui può dirsi che in questi paesi la protezione sociale costituisce un diritto di cittadinanza in senso marshalliano. In Italia invece non solo il sistema di protezione sociale si è sviluppato in ritardo, in conseguenza del ritardo con cui è avvenuto il processo di industrializzazione, ma avendo preso a modello delle assicurazioni obbligatorie quello realizzato in Germania da Bismarck tra il 1883 e il 1889, ha attuato un welfare di tipo occupazionale collegato cioè alla posizione lavorativa dell’individuo e allargato a membri della famiglia di chi è inserito nel mercato del lavoro. Solo in materia sanitaria è stato introdotto il principio di tutela universalistica. Malgrado ciò il nostro sistema è caratterizzato da un elevato “particolarismo” sia sul versante delle erogazioni che su quello del finanziamento.
La crisi che nell’ultimo ventennio ha colpito questi sistemi protettivi ha indotto i diversi paesi a interventi di riforma. Mentre i paesi scandinavi hanno teso a salvaguardare la dimensione universalistica dei loro sistemi, pur realizzando buoni risultati sul piano dell’efficienza del sistema economico-produttivo, dei saggi di sviluppo e della competitività internazionale, in altre nazioni dell’Unione Europea, malgrado interventi incisivi già realizzati o in via di realizzazione, gli effetti tardano a registrarsi. Sicché le preoccupazioni relative al costo delle politiche sociali e alle conseguenze che da esse discendono stanno indirizzando alcuni settori politici e della scienza sociale a riprendere in considerazione il principio della selettività per definire le condizioni di bisogno e di reddito per l’accesso alle prestazioni di base onde ottenere il contenimento della spesa.
Le differenze che si possono apprezzare in ordine sia agli orientamenti di politica sociale, sia ai risultati fino ad ora raggiunti e agli interrogativi che essi sollevano, hanno suggerito l’opportunità di promuovere un confronto tra modello scandinavo – sia pure tenendo conto delle differenze esistenti al suo interno – e modello italiano, avendo presente la complessa situazione europea e le esperienze che in essa maturano. Confronto tanto più interessante in quanto questa iniziativa si verrebbe a collocare all’interno di un dibattito italiano che si incentra eccessivamente sul sistema pensionistico senza ricollocare questo aspetto, come sarebbe necessario, nel quadro della struttura del sistema di welfare, delle anomalie e degli squilibri che di esso sono propri.
Come è risaputo la struttura interna della spesa sociale italiana in confronto con altri paesi rivela due marcate distorsioni. La prima riguarda i rischi protetti. Nel nostro paese la quota di PIL assorbita dai rischi “vecchiaia” e “reversibilità” è più elevata che negli altri anche se appare molto sottodimensionato il comparto “previdenza integrativa”. Al contrario la spesa a tutela dei rischi connessi alla “famiglia”, alla “disoccupazione”, alla “maternità“, alla “formazione” e all’”alloggio” è significativamente bassa e, in alcuni casi, del tutto insignificante.
La seconda distorsione riguarda le categorie occupazionali in quanto si registra un forte divario tra le prestazioni previste per il lavoro regolare (pubblico impiego e imprese private) e quelle riguardanti gli altri lavoratori e i non occupati. Non è presente neppure uno schema di reddito minimo garantito per chi è sprovvisto di mezzi.
L’anomalia di cui si parla è massima tra l’Italia e i paesi scandinavi per cui un confronto tra queste due aree appare molto importante per due ordini di ragioni. Innanzitutto in quanto può offrire indicazioni ed esperienze assai utili nel momento in cui sembra urgente in Italia uscire dall’alternativa “status quo” o “riforma della riforma Dini” per avviare il discorso verso una più proficua riflessione – iniziata peraltro negli anni Novanta del secolo scorso con la cosiddetta “Commissione Onofri” – sulla rimodulazione del nostro sistema di protezione sociale. In secondo luogo all’interno di un confronto quale ci si propone di promuovere sarà possibile soffermarci sulle possibilità di ridurre progressivamente le disparità esistenti nell’Unione Europea, promuovendo un processo di convergenza tra le diverse Europe sociali.
Un convegno come quello proposto offre, infine, l’occasione di prendere in considerazione tre nuovi aspetti sui quali la discussione è pressoché inesistente. Il primo riguarda la progressiva depoliticizzazione del dibattito su questo argomento per il fatto che il welfare, da cavallo di battaglia delle grandi socialdemocrazie europee dopo la seconda guerra mondiale, attualmente vede molti di questi stessi partiti (ad esempio Labour Party e Partito socialdemocratico tedesco) intervenire per ridurne la portata e i costi.
Il secondo aspetto attiene al fatto che a causa di tali orientamenti si è registrato un non indifferente affievolimento dei rapporti tra partiti socialdemocratici e organizzazioni sindacali. Le diverse opinioni in ordine alle vicende del welfare non sono che una delle componenti dell’allentamento dei rapporti – avvenuto nella società postindustriale – tra queste due fondamentali istituzioni di rappresentanza della classe lavoratrice. Il che confermerebbe come le modificazioni prodottesi nella stratificazione sociale, negli stili di vita e nelle tutele, stiano segnando sempre di più le differenziazioni tra le strategie e l’azione di tali istituzioni.
Il terzo aspetto riguarda il progressivo mutare della struttura dei bisogni che connotava quella “questione sociale” nata con la società industriale e di cui le assicurazioni obbligatorie prima, i sistemi di welfare poi, avevano costituito una risposta. Al di là dell’orizzonte della società industriale si incominciano a delineare i segni di una “nuova questione sociale” caratterizzata da una diversa struttura dei rischi e dei bisogni e da numerose rivendicazioni di cui sono portatori soggetti sociali in crescente misura differenti da quelli tradizionali.
Infine, le ultime notevoli difficoltà dell’integrazione europea, coincise con lo stop olandese e francese al processo di ratifica referendaria della Costituzione, ci pongono di fronte alla questione dei modelli sociali nazionali, nel senso che essi senza dubbio costituiscono uno dei motivi per cui gli europei attraversano una fase di diffidenza verso ulteriori cessioni di sovranità. E noto che questo fenomeno di diffidenza (se non di vera e propria opposizione) costituisce il vero humus per i populismi di destra e di sinistra, che scaricano sulla fuga di sovranità verso la UE molte delle colpe del fatto che i vecchi sistemi di convivenza europei (e quindi i welfare state nazionali) sono in via di ridimensionamento. Anche il caso dell’euroscetticismo scandinavo rientra in questo novero, sebbene esso non sia di marca necessariamente populista. Infatti, è vero che da una parte il Dansk Folkeparti danese fa parte della destra etnonazionalista ideologicamente avversa a ogni ulteriore passo della UE, ma è anche vero che esiste un ampio settore d’opinione che semplicemente non ritiene utile per i paesi nordici l’entrata nell’euro. Questo settore dell’opinione pubblica apprezza il modo di competere di Danimarca e Svezia così com’è, con il welfare al suo centro come asset competitivo, mentre vede in “Euroland” un insieme di paesi scarsamente dinamico sul piano economico e sociale. Perché dunque legarsi ulteriormente a loro? Di qui un primo punto: per gli scandinavi, in gran parte anche quelli di convinzioni liberal-conserva- trici, il welfare state è non solo compatibile con l’alta competitività mostrata da Danimarca, Svezia e Finlandia, ma anzi di più, è una risorsa di questa competitività, e in questo volume cerchiamo di dimostrare in che senso ciò sia vero.
Da questo punto di vista particolarmente emblematico è il caso della Germania, fortissima esportatrice con un mercato interno assai poco vitale. Anche qui il modello di welfare ci pare al centro della questione, poiché le elezioni di settembre 2005 hanno mostrato come la SPD paghi in alcuni ceti (specialmente i disoccupati di lungo periodo e i cittadini dei nuovi Länder ex comunisti) le riforme del governo Schröder, ma dall’altro lato la CDU-CSU riceva dall’elettorato messaggi molto chiari nel senso di non spingersi verso una deriva neoliberale che pochissimi apprezzano.
Ecco allora il secondo punto: la UE, e segnatamente il governo dell’euro, deve uscire dall’epoca della lesina e sostituirsi al vecchio keynesismo nazionale stimolando la domanda aggregata europea con specifiche politiche di spesa specialmente incentrate sull’innovazione delle infrastrutture, su tecnologia e ricerca, sulla formazione dei disoccupati sostenuta economicamente. Ecco dunque che molti dei problemi accennati in questa Introduzione e nei capitoli che compongono questo volume troverebbero una loro soluzione a livello europeo, per cui l’Unione renderebbe più facile la riforma dei welfare nazionali, in quanto essa avverrebbe in un contesto di crescita. Essa non sarebbe quindi vissuta come un’ulteriore punizione in un tempo di penuria, ma appunto come un adattamento a un modo nuovo di competere in cui, come è tradizione del nostro continente, le istituzioni del welfare (specialmente il sostegno alla disoccupazione) vogliono includere il massimo numero di cittadini.
Ci pare questo un modo per battere in breccia ogni euroscettici- smo, sia populista identitario sia “dell’autosufficienza”. È infatti così che l’Unione risalterebbe come strumento che promuove e fortifica i suoi Stati membri nel mutare al meglio il modo di convivere e di competere degli europei. Che rimane a nostro avviso una delle ragioni di vita principali dell’Unione. In ottemperanza con quello che Alan Milward anni fa definì in un suo celebre libro The European Rescue of the Nation State.